Antonino Labate
L?Idiota, il romanzo di Dostoevskij che vide la luce centocinquant?anni or sono, ha nel suo personaggio – Il principe My?kin ? la sintesi perfetta della bellezza morale. La trama presenta tra l?altro ai lettori un?opera d?arte che lo scrittore aveva avuto modo di ammirare a Basilea, costretto all?esilio per i debiti contratti, prima di giungere in Italia ? a Milano e poi a Firenze, dove si compie la stesura del romanzo – e che molto lo aveva turbato. Si tratta di un olio su tavola, del 1521, di Hans Holbein il Giovane: il ?Corpo di Cristo morto nella tomba?. L?artista, celebre ritrattista e pittore personale di Enrico VIII, compone un?opera che gi
dalle dimensioni risulta peculiare: la tavola misura due metri di lunghezza per una larghezza di trenta centimetri ed quasi completamente occupata dalla figura di un cadavere d?uomo ? il Cristo ? che viene cos presentato in dimensioni quasi reali, immortalato nel suo sepolcro.
?Nel quadro di Rogo?in di bellezza non ce n? neanche l?ombra, c? solo il cadavere di un uomo che ha subito indescrivibili torture prima di finire sulla croce. Ô stato ferito, battuto dalle guardie, percosso dal popolo mentre portava la croce sulle spalle, caduto sotto il peso della croce e ha subito per sei ore il supplizio sulla croce (cos per lo meno ho calcolato io). ?. Nel quadro questo viso tumefatto dai colpi, gonfio, ricoperto di lividi terribili, sanguinanti, gli occhi sono spalancati, le pupille sono storte, il bianco degli occhi luccica di un riflesso vitreo, cadaverico. Lo strano che quando guardi quel corpo straziato, ti viene una domanda curiosa e particolare: se era quello il corpo (e doveva essere proprio cos) che videro i suoi discepoli, soprattutto i suoi futuri apostoli, le donne che lo avevano seguito e assistito vicino alla croce, che credevano in lui e lo adoravano, come potevano essi credere, guardando un cadavere ridotto cos, che quel martire sarebbe risorto? Viene spontaneo pensare che se la morte cos terribile e se sono cos potenti le leggi della natura, come possibile sconfiggerle? ? E se il Maestro avesse visto l?immagine del suo cadavere alla vigilia dell?esecuzione, sarebbe salito sulla croce e sarebbe morto cos? Ô una domanda che ti viene spontanea, quando contempli quel quadro.?
Con queste parole Dostoevskij descrive mirabilmente l?opera e pone quesiti la cui risposta emotiva non potrebbe che essere: ?Quel quadro!¯ esclam d?un tratto il principe preso da un pensiero improvviso. ®Quel quadro! Ma quel quadro potrebbe anche far perdere la fede a qualcuno!¯?.
Il pittore, con scientificit
da moderno medico legale, mostra un cadavere di profilo ? scelta anch?essa inusuale ? con tutti i segni della crocifissione, addirittura in iniziale decomposizione ma soprattutto irrimediabilmente solo. Nessuna piet
per quest?uomo gi
emaciato prima ancora di subire le atroci torture, nessun grido di dolore lo accompagna: non c? spazio per il lirismo n per la speranza. Nessuna prospettiva di resurrezione trapela da quello sguardo perso nel vuoto, nessuna ulteriore strada indicata da quel dito esteso solo per le lesioni dei chiodi: la vita, il mondo, Dio Padre stesso sono lontani, dimentichi.
Non c? spazio per la consolazione, la morte crea un isolamento invincibile. Nulla a che vedere col Cristo morto del Mantegna, di qualche decennio antecedente, o con l?opera di Carpaccio del 1520.
Isolato, come abbiamo gi
ricordato essere Dostoevskij in quegli ulteriori anni d?esilio.
Quel corpo d?uomo morto emblema e paradigma dell?intera umanit
che soffre, ed sola, come solo nella sua umana mortalit
il Cristo di Holbein, insegna e paradosso della lotta dell?uomo buono contro la realt
. Eppure, spogliato di ogni consustanziazione col Padre, privato della stessa speranza di rinascita, umiliato nella passione, egli splende pienamente di compassione. Se l?idiozia del principe My?kin indispensabile per consentire agli altri di spogliarsi progressivamente dalle maschere che celano il loro dolore, il crudo realismo della passione e morte del Cristo, la precondizione per incarnare il dolore dell?intera umanit
. Si instaura una nuova legge: quella della compassione, del dono di s. L?egoismo, il vero e pi grave peccato; la fede assoluta – quella che il filosofo Thibon descriveva come il non rinnegare nelle tenebre ci che si intravisto nella luce ? lo strumento ed il percorso.
Una delle frasi pi citate della letteratura, quindi – pi citate e meno comprese – quella pronunciata dal nostro principe: ?La bellezza salver
il mondo?, non allude certo – e da esteta lo dico con rammarico – alla bellezza fine a s stessa o a quella che racchiude facili messaggi di teorica bont
, di astratto amore per l?umanit
che sempre si traduce in concreto amore solo per il proprio io. Ô la bellezza pi alta e vera di cui si parla, quella che sopravvissuta alla barbara pochezza della condizione umana ed uscita vittoriosa dalla quotidiana battaglia con l?inferno che abita ciascuno di noi e ci spinge al pi cieco egoismo. Ô la bellezza empatica e compassionevole di chi si assume sulle proprie spalle anche le altrui lotte e sofferenze perch ?Homo sum: humani nihil a me alienum puto?. Anche se questo comporta il sacrificio di s, del proprio individualismo, della vanit
, della smisurata ambizione. Ô la bellezza dell?amore che con esso cresce e da esso diviene indistinguibile. ?Perch alla fine, le profezie scompariranno, il dono delle lingue cesser
e la scienza svanir
: rester
solo l?amore.?