Il dibattito sull’identità e l’origine dei Bronzi di Riace si è recentemente riacceso a seguito di una controversia tra l’archeologo Daniele Castrizio e la rivista “Archeologia Viva”. In un post pubblicato su Facebook, Castrizio ha espresso il suo disappunto per la pubblicazione di un articolo che attribuisce a un medico, Anselmo Madeddu, una teoria sui Bronzi priva di basi scientifiche, e per l’uso non autorizzato di ricostruzioni grafiche realizzate dal visual designer Saverio Autellitano, collaboratore di Castrizio.
Il post di Daniele Castrizio:
Gentile Redazione di Archeologia Viva,
non sono ancora riuscito a riprendermi dallo shock dello Speciale di Rai1 sui Bronzi di Riace, infarcito di falsi scoop, corroborati da un fotomontaggio diffamatorio, ma oggi aggiungete delusione su delusione.
Nell’ultimo numero della vostra pregiata rivista voi non solo date credito alla teoria sui Bronzi di Riace del dott. Madeddu, Presidente dell’Ordine dei medici di Siracusa, che non ha nulla di scientifico, come dimostrato dall’archeologo del CNR Fabio Caruso, ma mettete in copertina le ricostruzioni della mia ipotesi, il cui originale è stato realizzato dal visual designer Saverio Autellitano, attribuendole però a Madeddu. Che dire? Complimenti!!
Voi mi direte: è una notizia e noi dobbiamo darne conto. Se questo è il vostro punto di vista, devo però rispondervi che in Italia abbiamo perso il senso della misura, perché uno dei fondamenti della public history (o archeologia pubblica, se preferite) è che la divulgazione venga effettuata dagli esperti e dagli studiosi accreditati.
Pensate voi, dando la parola a un medico, che abbiate reso un buon servizio all’opinione pubblica? Assolutamente no!
Cosa può comprendere un lettore medio, posto di fronte alla scelta tra una teoria scientifica, come quella di Paolo Moreno, di Giuseppe Roma, di Vinzenz Brinkmann, e le sparate di un medico, che non ha mai sostenuto un esame di archeologia, senza un dottorato di ricerca o una Scuola di specializzazione in archeologia?
Senza un filtro, che toccava a voi porre, la confusione regna sovrana.
Mi dispiace, ma avete dato un ulteriore colpo alla disinformazione scientifica e alla squalificazione della ricerca universitaria.
In Italia, mentre le altre Nazioni, puntano sull’archeologia pubblica, si cerca di creare solo confusione, con una archeologia dell’ignoranza e delle emozioni di fronte ai Beni archeologici, così cara ai vertici burocratici del Ministero della Cultura, responsabili della decadenza delle ricerche e degli studi in Italia.
Purtroppo, non esiste l’equivalente dell’art. 348 del Codice Penale, che punisce l’abuso di professione medica, per chi abusa, invece, della professione di archeologo.
Castrizio: “Nessuna pena per chi abusa della professione di archeologo!”
L’intervento dell’archeologo Daniele Castrizio va ben oltre lo sfogo personale: è un grido d’allarme sullo stato della divulgazione scientifica in Italia, sulla necessità di rispettare le competenze e di proteggere il valore della ricerca universitaria. In un momento storico in cui l’archeologia pubblica dovrebbe rappresentare un ponte tra scienza e società, l’approssimazione e l’uso improprio delle fonti rischiano di affossare il lavoro serio e meticoloso degli studiosi.
È lecito che si raccontino storie affascinanti e si diano spazio a ipotesi alternative, ma ciò non può avvenire a discapito della verità storica e del rigore accademico. Quando a parlare di archeologia sono figure non titolate, senza mediazione critica e verifica, si rischia non solo di diffondere falsità, ma anche di svilire anni di studio, sacrificio e impegno.
Il caso sollevato da Castrizio è emblematico: senza un serio discernimento tra competenza e opinione, si finisce per dare la stessa dignità a chi studia una vita intera e a chi improvvisa. E questo, per la cultura, è un danno irreparabile.