Parlare di ‘ndrangheta fa bene. Giusto, perchè?
Perchè abbiamo attorno un muro, “con in cima cocci aguzzi di bottiglia”. E questa cappa che ci costringe alla povertà ed all’emigrazione, nel benestare della politica locale e nazionale, non è detto debba necessariamente sfociare nella delinquenza.
La spinta è forte, come il desiderio di rivalsa, l’ambizione negata dei giovani comprensibilmente sfocia nella rabbia e nella ribellione, nel rifiuto di identificarsi con una nazione che sin da subito ha fatto del suo Sud un serbatoio di leve operaie e militari da desertizzare a beneficio strategico. Per quanti crescono in quel deserto, e non in un’ampolla di qualche salotto bene, c’è qualche associazione di “amici” che aiuta a sopravvivere ed a morire, e poi c’è una mano che da lontano ti invita ad aderire ad un sentimento quasi impraticabile: a schierarti contro i forti che ti stanno attorno, il quartiere degradato dove lavori e fai spesa, in nome di uno Stato che ha la dimensione di una stella in una notte poco chiara. E’ difficile. L’altra via, quella del dovere, della missione e del sacrificio per la propria terra e per la propria coscienza, nell’aspettativa che le cose potrebbero peggiorare, è un sentimento cristiano difficile, che tuttavia molti sanno abbracciare, e ciò dovrebbe farne i protagonisti assoluti di qualsiasi romanzo sul Sud.
Parlare di ‘ndrangheta fa bene quando si usa il “noi”, non il “noi buoni”, il “loro cattivi”, ma il noi, uomini; la nostra storia, fatta di cadute e di promesse, il nostro popolo. Solo dalla prospettiva degli Argirò, si capisce la condizione di essere “in mezzo a qualcosa di ingiusto” e quel desiderio di rivalsa e l’orgoglio per ciò che di bene cresce nell’Aspromonte, ed è l’unica leva capace di riscattarlo. Solo chi è dei nostri può vantarsene, solo chi usa il “noi” capisce la dimensione della bellezza che colse Alvaro, nel descrivere personaggi veri, problematici in una terra problematica e bella. Dagli attici newyorkesi, non ci si arriva.
Miserabile è chi traccia una linea per terra, per schierarsi dalla parte degli estranei, degli immacolati; di chi si sente senza peccato scagliando pietre contro San Luca, l’adultera.
Intanto Saviano fa soldi sulla pelle dei bambini, mette scorpioni sulla pelle dei bambini. Questo paese sarà per forza vittima della entomobofia grossolanamente sponsorizzata da Saviano.Saviano riceverà l’ingiusta condanna dei delinquenti, rispetto ai quali non è che un rivale ideologizzato, e troverà la giusta condanna del popolo di San Luca, di cui l’intruso ha inquadrato le pudenda, e non il volto.
Non le sublimi espressioni di arte e bellezzza e natura, non la prospettiva di speranza, ma la malattia, e la fantasia perversa di trovare la forma del male, ovunque, non solo sulla pelle dei bambini, ma anche nella forma del paese, e nelle nuvole di passaggio, a forma di scorpione, come le corna di certi barbari scrittori.
Per questo non posso ammirare un Saviano che ha appreso il meccanismo perverso della comunicazione, e che sa distillare il male scremandolo dal bene, e questo artificio alchemico lo chiama “San Luca”.
Parlare di ‘ndrangheta è necessario. Se serve a proiettare i lettori verso la visione di un paese da riscattare, che deve rialzarsi sul proprio bene, puntare i piedi su quel lembo di roccia che ha la forma che non piace a Saviano, quella della cultura, del profumo, della speranza. Dell’ulivo e dell’uva, dell’acqua e della letteratura, della musica e della speranza.
Certo, parlare di ‘ndrangheta. Sempre. Aborrire l’omertà , recarsi al commissariato per denunciare la ‘ndrangheta. Ma, facendolo, non si deve rimanere esposti alla morte. Questo invito all’eroismo non è realistico.
Parlare di ‘ndrangheta va bene se si separa la gramigna dal grano, e se non si brucia tutto il campo. Bruciarono i campi di San Luca i Mezzatesta del realista Alvaro, e bruciano oggi i campi di San Luca i romanzieri speculatori alla Saviano, per costruirvi sopra il proprio tornaconto. Sono colonialisti, sciacalli, delinquenti, non giornalisti, quelli che ricamano sui bambini l’etichetta, il marchio della delinquenza. Perchè quel marchio non se ne andrà più. Succede, quando non si sente un popolo ed una terra come la propria.
Ho sempre scritto solo quello che penso, ed una collega un giorno mi ha chiesto “sei dei nostri o dei loro?”. Avrei potuto rispondere “sono di una sola razza, quella umana” per ironizzare attorno a quando sia opportunistica la questione sull’etichettare i popoli e la gente. Avrei anche potuto licenziarla malamente, quella collega, o rispondere che è molto più difficile essere dalla parte della verità , che di un folto gruppo di professionisti, o ‘ndranghetisti, o buonisti, o legalisti.
E’ che ci si sente stranieri, sia in mezzo ai bulli della tua città , sia in mezzo a quelli della tua questura, sia in mezzo a bulli giornalisti che speculano sulla propria terra. E’ che ci si sente, però, di amare tutta questa gente, che vive di pane e non di verità , ma è la tua gente ed in questo senso, non ti è straniera, ma sorella.
Servono entrambi i sentimenti per scrivere la verità . Senza scendere a patti con la morte, sia che adoperi la falce che la penna.
Bisogna salvarla, la tua terra, non abbandonarla, non crocifiggerla, informare sul male mettendo l’accento su ciò che di buono esiste, perchè un conto è lavorare all’edificazione di un paese, un conto cooperare al suo smantellamento. E chi sa leggere tra le righe, anche la gente umile senza elementari, capisce bene quale sia il tono di un articolo, di un romanzo, di una serie televisiva. E se lo spirito è affossare una comunità per innalzare il proprio conto in banca, questa manovra non può e non deve destare simpatie, non in nome della giustizia e nemmeno in nome della Legge. E soprattutto, non in nome del giornalismo.
Cesare Minniti