La recente tragedia del Raganello, al di l di eventuali responsabilit , stimola alcune riflessioni sulle attivit di mitigazione del rischio geo-idrologico e sulle procedure di allertamento previste dalla Direttiva di Protezione Civile, intitolata “Sistema di Allertamento regionale per il rischio meteo idrogeologico ed idraulico in Calabria“, approvata e adottata dalla Giunta Regionale con deliberazione n. 535 del 15 novembre 2017. In questo contributo, esaminiamo alcuni aspetti problematici con l’obiettivo di sottolinearne le criticit che meritano quanto prima di essere risolte attraverso accorgimenti normativi e procedurali.
In estrema sintesi, il sistema di allertamento prevede una fase di tipo previsionale, basata sui risultati di elaborazioni di modelli meteorologici e altri precursori d’evento. In tal modo, vengono stabiliti i livelli d’allertamento (verde, giallo, arancione, rosso) per ciascuna delle 8 “zone di allertamento” in cui stata suddivisa la Calabria, e di conseguenza le “fasi operative minime” (base, attenzione, pre-allarme, allarme) che devono essere attivate a livello comunale. Tali informazioni vengono comunicate quotidianamente dalla Protezione Civile regionale ai Comuni attraverso il cosiddetto Messaggio di Allertamento Unificato.
In caso di evento in corso, sulla base dei dati di pioggia rilevati dalla rete del Centro Funzionale ARPA-Calabria e dei risultati di modellazioni idrologico-idrauliche, vengono inoltre individuati i comuni per i quali le piogge in corso risultano maggiori di pre-fissati valori di soglia. Per ciascun comune sono state, infatti, stabilite 3 diverse soglie (livello 1, 2, 3): in funzione della soglia superata, viene attivata una specifica Fase Operativa minima (attenzione, pre-allarme o allarme). Tali informazioni vengono comunicate ai singoli comuni interessati nell’ambito della fase di monitoraggio e sorveglianza, attraverso la cosiddetta Comunicazione di superamento soglie.
In base alle informazioni ricevute, i sindaci hanno dunque il compito di attivare la fase operativa pi adeguata per affrontare le criticit geo-idrologiche previste o in corso. Non esistono automatismi tra i livelli di allerta e le fasi operative da attivare: la decisione su quale particolare fase operativa attivare (attenzione, preallarme, allarme) non pu infatti prescindere da un’adeguata conoscenza delle peculiarit dello stesso territorio in termini di pericolosit e di rischio, cos come delle condizioni effettive locali che si stanno verificando in un dato momento.
In un sistema di allertamento cos congegnato, particolare rilevanza assumono l’accuratezza (spaziale e temporale) e la tempestivit delle informazioni trasmesse dalla Protezione Civile regionale alle realt locali. Analogamente, risulta fondamentale la capacit di pronta risposta delle Amministrazioni locali, soprattutto in corso d’evento, basata su un’adeguata conoscenza degli “scenari di evento” e dei conseguenti “scenari di rischio” – ovvero, dei fenomeni che possono verificarsi sul territorio, e dei conseguenti danni a persone e beni. Anche per questo, la Direttiva ha imposto l’aggiornamento (entro il 1 marzo 2018) dei Piani di Emergenza comunali.
L’impalcatura concettuale della Direttiva richiede, dunque, una virtuosa compartecipazione delle Autorit locali di Protezione Civile nella gestione del rischio geo-idrologico. In un Paese moderno, l’incolumit della popolazione e dei beni deve basarsi sulla conoscenza delle caratteristiche del territorio e dei rischi connessi.
Tuttavia, non si possono ignorare le problematiche connesse alle “condizioni reali” in cui simili norme devono trovare concreta applicazione.
Per cominciare, le capacit organizzative e di pronta risposta delle strutture amministrative locali sono spesso ostacolate da carenze d’organico, soprattutto nei profili tecnici “competenti” in ambito territoriale. Tra le diverse azioni minime che i sindaci sono chiamati ad attuare nel corso delle diverse fasi operative, vi l’attivazione del monitoraggio sul territorio tramite le Unita Tecniche Mobili Comunali (UTMC). Tali unit dovrebbero essere composte da “personale scelto tra tecnici comunali, vigili urbani, volontari di protezione civile h24, dotato di adeguata strumentazione, con compiti di presidio territoriale“. Le UTMC ricordano i Presidi Idrogeologici Territoriali Permanenti, costituiti da personale esperto e coordinati da professionisti tecnici esperti in materia (geologi e ingegneri), la cui istituzione era stata suggerita da tempo dai consigli professionali dell’area tecnica, ed in particolare da quello dei geologi, per svolgere attivit di ?monitoraggio esperto? e attuare una concreta politica di prevenzione.
Tuttavia, in realt socio-economiche non particolarmente floride – in cui capita che l’unico tecnico comunale venga condiviso a giornate alterne tra comuni limitrofi – l’attuazione concreta di simili disposizioni normative risulta quantomeno problematica. Si potrebbe ricorrere, quindi, a forme di coordinamento tra comuni adiacenti, possibilmente ricadenti in settori territoriali “omogenei” in termini pluviometrici e geomorfologici. Ovviamente, il personale delle UTMC dovrebbe essere “formato” attraverso specifici corsi di aggiornamento, dotato di strumenti adeguati, e “gratificato” (considerate le responsabilit e i rischi connessi a tali incombenze).
La Direttiva prevede la redazione di scenari di evento e di rischio, “considerando anche le aree individuate dal PAI (Piano stralcio di Assetto Idrogeologico) e dal PGRA (Piano di Gestione del Rischio Alluvioni)“. La redazione di simili scenari di dettaglio non pu prescindere da adeguati studi, indagini ed elaborazioni modellistiche – essendo assolutamente insufficiente procedere a un mero copia e incolla dei documenti di pianificazione redatti dall’Autorit di Bacino regionale, a parte le differenze di scala connesse a metodi e finalit degli studi. Anche per questo aspetto necessario, quindi, prevedere tempi e finanziamenti adeguati, oltre al coinvolgimento di specialisti.
Fin qui gli aspetti legati alle incombenze per le Amministrazioni locali. Ma esistono punti di debolezza anche a livello sovra-comunale. Ad esempio, i livelli di allertamento sono, come accennato, attualmente riferiti a vaste zone del territorio regionale (le 8 zone d’allertamento), e non raro osservare l’attivazione di detti livelli, contestualmente, in diverse zone. Di conseguenza, estese porzioni della regione risultano frequentemente allertate, con le conseguenti “azioni minime” da attuare a scala comunale.
Ma si pu considerare sufficiente l’invio, da parte della Protezione Civile regionale, di messaggi di allertamento unificato o di superamento soglie per zone cos vaste?
Le conoscenze specialistiche disponibili sulle caratteristiche del territorio regionale consentirebbero un’attenta ridefinizione delle zone di allertamento, tenendo nella dovuta considerazione le peculiarit geo-idrologiche in termini di fenomeni attesi e di possibili effetti al suolo. In tal modo si potrebbero ottenere una delimitazione di zone maggiormente omogenee e di minore estensione.
Inoltre, nelle ?Clausole di Salvaguardia? della Direttiva, si afferma: ?Per le ridotte scale spaziali che alcuni fenomeni possono assumere, anche possibile che la stessa rete di monitoraggio idro-pluviometrica non sia in grado di rilevare l?occorrenza di questo tipo di eventi?. Il monitoraggio delle piogge – e le successive elaborazioni della Protezione Civile per ottenere le previsioni valide per le successive 36 ore – si basano sostanzialmente sui dati forniti dalla rete dei “pluviometri” (recipienti di dimensioni standard che raccolgono in prossimit del suolo l’acqua di precipitazione). In Calabria, tale rete costituita da circa 150 stazioni di misura sparse sul territorio. Tuttavia, come ben noto agli specialisti del settore, la probabilit di rilevare adeguatamente una ?bomba atmosferica? (eventi di pioggia localizzati, brevi e intensi, causati dallo sviluppo di celle convettive) piuttosto bassa. Di conseguenza, eventi di pioggia eccezionali – come quelli che colpirono Vibo nel luglio 2006 o Rossano nell’agosto 2015 – se rilevati con strumenti inadeguati come i pluviometri, rischiano di “apparire” come eventi ordinari, con possibili risvolti penali per amministratori e funzionari pubblici, oltre che per privati e professionisti.
Gli specialisti sanno che esistono, da tempo, strumenti d’osservazione che consentono di localizzare, in tempo reale o quasi, ci che accade in atmosfera: satelliti come il Meteosat, che trasmette la copertura nuvolosa con possibilit di individuare le celle temporalesche e ipotizzare la loro evoluzione; la rete di rilevamento delle fulminazioni, che misura e localizza i fenomeni elettrici che precedono e accompagnano i temporali (con frequenza e intensit delle fulminazioni fortemente correlate alla intensit delle precipitazioni); i RADAR meteorologici, capaci di indicare la distribuzione delle precipitazioni su vaste porzioni di territorio.
In realt , l’utilizzo di tali strumenti ancora oggetto di ricerca, e sono necessari ulteriori affinamenti metodologici – e quindi investimenti – per definire protocolli di impiego che ne garantiscano livelli adeguati di affidabilit in fase operativa. Occorre certamente proseguire in tale direzione per mettere insieme il meglio delle tecniche disponibili e ottenere, tempestivamente, quadri conoscitivi accurati. Grazie a simili investimenti, sarebbe possibile riconoscere gi sul nascere le celle convettive e – attraverso un adeguato sistema di modellazione – prevederne la possibile evoluzione a breve termine. In altre parole, sarebbe possibile capire dove si sta dirigendo il mal tempo, dove stanno per scaricarsi le piogge pi intense, e quali effetti al suolo sono da attendersi a breve (es. con anticipo da mezz’ora a poche ore).
In un Paese moderno, la mitigazione del rischio geo-idrologico rispetto a questo tipo di eventi non dovrebbe ignorare un simile tipo di approccio. Ci consentirebbe ai sindaci di ricevere finalmente informazioni accurate e tempestive sulla localizzazione e l’intensit delle precipitazioni attese, e si potrebbero limitare i “falsi allarmi” (ovvero i messaggi di allertamento cui non fanno spesso seguito eventi reali) e i connessi oneri a carico delle Amministrazioni comunali. Nella Deliberazione 535/2017 si fa essenzialmente riferimento alla classica rete dei pluviometri regionali – un patrimonio indubbiamente prezioso, da salvaguardare e potenziare – ma occorre volgere decisamente lo sguardo alle innovazioni tecnico-scientifiche se si desidera tutelare davvero la pubblica e privata incolumit .
A tale riguardo, si evidenzia che in aree del reggino, tra le pi esposte in Italia al rischio geo-idrologico sussistono seri problemi di “copertura” e, pertanto appare urgente l’installazione di un RADAR integrativo che copra quest?area per consentire un adeguato monitoraggio delle perturbazioni in avvicinamento.
Nelle ore successive alla tragedia del Raganello capitato di ascoltare dichiarazioni di vario tenore. In diversi casi, si sottolineava il carattere intrinsecamente rischioso di alcuni tipi di attivit umane (come appunto l’escursionismo). Alcuni invocano severe limitazioni di accesso ai luoghi mentre altri le considerano ingiuste e liberticide. In un contesto sociale moderno, la tutela dell’incolumit dovrebbe combinarsi con le istanze di libert in modo equilibrato, senza peraltro dimenticare che i costi per le operazioni di salvataggio ricadono sull’intera comunit . Anche su questi aspetti, sarebbe opportuna una seria riflessione che non trascuri la possibilit di prevedere forme obbligatorie di formazione e di assicurazione per i soggetti interessati. All’estremo opposto, chi pretende di interdire l’accesso ai luoghi a rischio dimentica – forse non essendo specialista in materia – che le zone maggiormente caratterizzate da rischi naturali sono proprio quelle maggiormente “richieste”, in quanto la bellezza del paesaggio fortemente legata all’attivit dei processi di modellamento. Detto in altri termini, siamo tremendamente attratti proprio dalle zone dove pi probabile farsi male o rimetterci le penne. Quella gola meravigliosa, scavata nelle rocce del Pollino, si trasformata in pochi minuti in una trappola mortale per il rapido innalzamento del livello delle acque del torrente Raganello. Se ci poteva essere o meno previsto, e quindi la tragedia evitata, ce lo diranno gli esiti delle indagini. Ma anche senza immaginare eventi eccezionali, dobbiamo ricordarci che, ogni giorno dell’anno e a qualunque ora, si staccano dalle pareti rocciose di quel canyon numerosi frammenti di roccia. Per le dimensioni generalmente ridotte dei frammenti, e per la scarsa densit di turisti in transito alla base delle pareti, tutto ci si traduce “fortunatamente” in un semplice splash nelle acque cristalline del torrente. Gli effetti di una modesta pietruzza che ci precipitasse addosso sarebbero tuttavia devastanti: la probabilit che ci accada bassa ma non affatto nulla. Un ragionamento analogo potrebbe estendersi a tanti altri esempi di rischi connessi alla fruizione di ambienti urbanizzati e non. Non disponiamo (ancora) di strumenti adeguati per prevedere simili eventi ma l’opzione del divieto assoluto chiaramente una soluzione inadeguata per un problema complesso.
In conclusione, sono disponibili strumenti di vario tipo, alcuni tecnologicamente avanzati, e sarebbe irresponsabile ignorarli: occorre piuttosto compiere al pi presto tutti gli sforzi necessari per implementarli in un moderno sistema di mitigazione, e cercare di percorrere finalmente quell’ultimo miglio che ci separa da un traguardo di civilt . Di questi argomenti si discuter a breve, in occasione di un Convegno organizzato dall’Ordine dei Geologi della Calabria, con il patrocinio del Consiglio Nazionale del Geologi, con il coinvolgimento di Amministratori, Ordini delle professioni tecniche, Universit , Centri di ricerca e Protezione Civile.
Alfonso Aliperta
Presidente dell’Ordine dei Geologi della Calabria
Giulio Iovine
Vicepresidente dell’Ordine dei Geologi della Calabria & Ricercatore CNR-IRPI
Francesco Arcangelo Violo
Segretario del Consiglio Nazionale dei Geologi